Continua il dibattito sul testamento biologico sul nostro blog. Ad intervenire è Edoardo Mauro.
"Vita è la donna che ti ama, il vento tra i capelli, il sole sul viso, la passeggiata notturna con un amico. Vita è anche la donna che ti lascia, una giornata di pioggia, l’amico che ti delude"
“Io amo la vita, Presidente. Vita è la donna che ti ama, il vento tra i capelli, il sole sul viso, la passeggiata notturna con un amico. Vita è anche la donna che ti lascia, una giornata di pioggia, l’amico che ti delude. Io non sono né un malinconico né un maniaco depresso – morire mi fa orrore, purtroppo ciò che mi è rimasto non è più vita – è solo un testardo e insensato accanimento nel mantenere attive delle funzioni biologiche […] Se fossi svizzero, belga o olandese potrei sottrarmi a questo oltraggio estremo ma sono italiano e qui non c’è pietà.” Dopo più di dieci anni da questa lettera di Piergiorgio Welby indirizzata al presidente Giorgio Napolitano e dopo i casi mediaticamente impattanti sulle nostre quotidianità di Eluana Englaro e Dj Fabo, la discussione culturale, sociale e politica sul tema dell’eutanasia e del testamento biologico ha trovato come riposta il 14 dicembre 2017 è stata approvata in via definitiva al Senato, con 180 voti favorevoli, 71 contrari e 6 astenuti, la legge sul biotestamento (legge 22 dicembre n.219 entrata ufficialmente in vigore il 31 gennaio 2018).
Sono cresciuto secondo educazione cattolica e con coscienza ho accettato, nel corso degli anni, i precetti e la parola di Dio. Allo stesso tempo coltivo uno spirito liberale, sono uno strenuo sostenitore della pluralità intellettuale e della capacità che in ognuno di noi autodeterminarsi per rendere la vita un posto meraviglioso in cui sentirsi e sentire.
Da questo connubio in cui oggi mi trovo, affronto il tema dell’eutanasia e del biotestamento con grande travaglio interiore e grande paura. Come posso augurare il buio della morte, io che ho accettato la Parola di Luce? Come posso accettare imposizioni terapeutiche, io che difendo l’inviolabile libertà della vita?
Il bivio in cui mi trovo è drammatico e la paura di esprimersi è forte. Inoltre, non mi sento di giudicare delle situazioni in cui, per fortuna o grazie a Dio, non mi sono mai trovato. Scegliere nell'unica scelta senza ritorno, pieni di incertezze e paure e nella consapevolezza di solcare mari e dinamiche molto più grandi di noi. Invidio anche io, come il mio amico Gabriele, “coloro che sono convinti che “i tubi vadano staccati” come invidio chi difende il bene vita fino all'ultimo naturale anelito.”
Io, però, posso avere dubbi. Lo Stato no. Uno Stato democratico, di diritto e libero deve consentire ad ogni individuo di tutelare e affermare la propria dignità all'interno delle proprie istituzioni. Uno Stato deve anteporre ad ogni qualsiasi elucubrazione intellettuale, politica e culturale la possibilità di sentirsi liberi all'interno del proprio corpo.
Ma sono contrario alla mercificazione politica che è stata fatta su questo tema. L’approvazione della legge in fretta e furia a fine legislatura, le numerose perplessità sorte in seno ad un testo di legge non impeccabile (molti dubbi in merito ai medici obiettori e alla presunta discriminazione dei minori e degli incapaci di intendere e volere) mi porta pensare che questa legge sia stata voluta anche se non pienamente ponderata ed analizzata. Una legge con funzione elettorale, anche se poi rivelata inutile ai fini delle politiche del 4 Marzo visto il risultato del Pd.
Si trattava di un’occasione per rendere questo Paese più civile ed eticamente all'avanguardia e per questo sarebbe stato bello vedere l’esigenza politica a disposizione di quella degli altri. Andrà meglio la prossima volta.
Edoardo Mauro
L'intervento di Cristina Dettù sul testamento biologico
L'intervento di Gabriele Giaccari sul testamento biologico
giovedì 26 aprile 2018
sabato 14 aprile 2018
Andare Oltre la guerra
Ci risiamo. Ancora una volta le bombe. Ancora una volta la guerra. Ancora una volta le giustificazioni che non reggono. Questa notte circa 100 missili lanciati da Usa, Gran Bretagna e Francia hanno colpito la Siria.
Sono nato nel 1983 e la mia generazione è stata nutrita, dai media, dalla convinzione di vivere in un periodo di pace. Troppo lontani dalle due Guerre Mondiali. Troppo lontani anche dal vecchio concetto di scontro fisico tra due eserciti contrapposti. Troppo lontani, come Europa, dai teatri di guerra e di sofferenza. Eppure, andando a memoria, ricordo la prima guerra del Golfo, nel 1990, vista in televisione da casa dei nonni; la guerra in Bosnia del 1994; la guerra in Kosovo nel 1999 che mi costò il mio unico 5 in italiano in un compito in classe dove, evidentemente per lesa maestà, secondo la prof., avevo sollevato troppi dubbi sulla giustezza delle operazioni Nato contro l’allora presidente serbo Milosevic e sulle intenzioni degli esportatori della democrazia in quella ma soprattutto in altre guerre; le aggressioni in Afghanistan e in Iraq dal 2001 fino a quasi i giorni nostri, con la scusa di beccare Bin Laden la prima e di fermare Saddam Hussein e le sue armi chimiche la seconda, salvo poi non concedere il piacere agli spettatori di vedere né l’uno (ucciso e gettato in mare, secondo le fonti ufficiali) né le altre; e poi ancora l'intervento in Libia nel 2011.
Tutti questi avvenimenti, ma anche quelli precedenti di cui non ho memoria diretta, sono caratterizzati da pochi punti fermi: l’aggressore ovvero gli Stati Uniti con la Nato, e il sostegno a intermittenza dell’Onu; le metodologie ovvero la presenza di una causa scatenante sbattuta su tutti i giornali e i mezzi di informazione come la goccia che ha fatto traboccare il vaso; l’importanza della zona colpita ovvero la presenza di ricchezze (vedi petrolio) o l'aspetto strategico del punto (quante volte si è detto "in Africa si combattono centinaia di guerre tutti i giorni puntualmente ignorate perché non c'è ritorno economico per eventuali interventi esterni"); la presa d’atto da parte di noi occidentali che forse la causa scatenante era falsa.
Oggi, a parte tutti i dubbi su una guerra ingiusta contro un popolo già martoriato da anni dall’Isis; contro un presidente eletto e voluto dalla sua gente e in guerra, lui sì, contro l’Isis; giustificata con la solita scusa dello Stato Canaglia, pericoloso per la democrazia; quello che appare assurdo e paradossale e su cui non possiamo non aprire gli occhi è il fatto che venga bombardata la Siria perché avrebbe usato armi chimiche, venga bombardato il deposito di queste armi chimiche, ma il bombardamento parta nel giorno in cui l’ONU aveva in agenda di verificare l’esistenza o meno di questo arsenale! È un dettaglio-non dettaglio che non può essere trascurato e su cui andrebbero fatte troppe riflessioni.
Marco De Matteis
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venerdì 13 aprile 2018
sul testamento biologico /2
Continua il dibattito sul testamento bioligico sul nostro blog. Ad intervenire è Gabriele Giaccari, militante "fuorisede" di Andare Oltre Galatina.
“Quando si è giovani è strano poter pensare che la nostra sorte venga e ci prenda per mano, venga e ci prenda per mano...”.
“Quando si è giovani è strano poter pensare che la nostra sorte venga e ci prenda per mano, venga e ci prenda per mano...”.
Ho deciso di menzionare questi versi di Guccini perché, probabilmente, rappresentano al meglio la difficoltà che ho incontrato nel dover affrontare un argomento così sofferto come il c.d. testamento biologico.
Dall’analisi del dato normativo, emerge che i principi giuridici posti alla base della legge 219/2017 sono i seguenti:
(1) ad ogni persona capace di agire deve essere riconosciuto il diritto di rifiutare, o revocare in qualunque momento in caso di iniziale consenso, “qualsiasi accertamento diagnostico o trattamento sanitario indicato dal medico per la sua patologia o singoli atti del trattamento stesso”;
(2) ogni persona maggiorenne e capace di intendere e di volere, “in previsione di un’eventuale futura incapacità di autodeterminarsi e dopo avere acquisito adeguate informazioni mediche sulle conseguenze delle sue scelte, può, attraverso le DAT, esprimere le proprie volontà in materia di trattamenti sanitari, nonché il consenso o il rifiuto rispetto ad accertamenti diagnostici o scelte terapeutiche e a singoli trattamenti sanitari”.
A volersi soffermare esclusivamente su una analisi meramente giuridico - “politica”, ritengo opportuno che in Italia, stato laico e di diritto, ognuno di noi possa avere la possibilità di decidere, in salute o in costanza di malattia, se provare fino all’ultimo a difendere la propria vita oppure se, dignitosamente, evitare inutili sofferenze.
Non era più tollerabile che un paese civile come l’Italia, desiderosa di affrontare le sfide del futuro da protagonista, offrisse ai propri cittadini che volevano porre fine alle proprie sofferenze causate da una vita segnata da malattie incurabili o fortemente invalidanti, quale sola ed unica scelta quella di emigrare verso altri Paesi al fine di ricorrere a qualche dispensatore di “buona morte”.
Fortunatamente, il nostro legislatore ha capito che riconoscere un diritto significa aprire nuove possibilità, significa compiere un piccolo passo verso il progresso, consentendo una libertà di scelta che prima era vietata.
Ad ogni modo, seppur condividendo i principi ispiratori di questa legge, non nascondo che ho grande difficoltà ad affrontare l’argomento.
L’intreccio di valori etici, religiosi, culturali è così inestricabile che non mi sento all’altezza di andare oltre ad una mera analisi giuridica.
Invidio coloro che sono convinti che “i tubi vadano staccati” come invidio chi difende il bene vita fino all’ultimo naturale anelito.
Non sono in grado di poter esprimere un giudizio in merito di scelte così delicate perché immagino quanto possa essere dolorosa e consumante la scelta tra il voler smettere di soffrire o il voler provare fino all’ultimo a combattere per la vita, tra il continuare una esistenza provata da atroci sofferenze fisiche e morali oppure il porre fine a tutto, cercando così un seppur minimo sollievo.
Deve essere un dissidio angosciante perché, anche se è vero che vivere in uno stato vegetativo o in una continua escalation di sofferenze rappresenta l’incubo di tutti, non deve essere comunque facile decidere di morire.
Infatti, per quanto si possa credere ad una esistenza dopo la morte, l’unica cosa certa è che questa è l’unica chance effettiva di vita che ci viene garantita, bella o brutta che sia.
Ed una volta finita, non c’è modo di ricominciare.
Per questo, da cittadino sono contento che sia stato riconosciuto a tutti noi il diritto a scegliere, ove possibile, della nostra vita e/o della nostra morte. Ma da ragazzo ancora non credo di avere ancora la forza di poter decidere in merito.
In fondo quando si è giovani è strano poter pensare che la nostra sorte venga e ci prenda per mano, venga e ci prenda per mano...
martedì 10 aprile 2018
sul testamento biologico
Il 22 dicembre scorso il Senato ha approvato la lettura definitiva della legge n 219/17 con la quale il legislatore ha affrontato il tema del Testamento Biologico al centro delle polemiche e del dibattito politico da anni. In questi mesi, alcuni comuni si sono attrezzati per predisporre un Registro delle Dichiarazioni Anticipate di Trattamento al fine di raccogliere le dichiarazioni dei propri cittadini che intendessero redigerle nel rispetto della normativa vigente. Andare Oltre ritiene la legge in questione uno dei passaggi più significativi della legislazione appena conclusa e ritiene di dover dare il suo contributo anche nella sua Città, aprendo il dibattito sulla materia, così come oggi fa da questo blog l’Assessore alla Cultura di Galatina, Cristina Dettù, e successivamente predisponendo, ove ci fossero le condizioni, delle iniziative adeguate alle conclusioni del dibattito stesso.
Ricordo i suoi occhi implorare aiuto e sento ancora gli atroci lamenti rimbombare nella testa. Lo guardavo e mi chiedevo cosa avrebbe scelto se avesse saputo di dover vivere otto anni della sua vita in quelle condizioni. Eppure la speranza e il rispetto del dono della vita frenavano qualsiasi tipo di pensiero, perché so che Dio esiste anche nella sofferenza.
Il filo già sottile che lega razionalità e fede rischia di spezzarsi davanti all'impotenza della vita e della morte, nel rispetto di scelte che non sai mai se siano quelle giuste. Consentire ad ogni persona “il diritto di conoscere le proprie condizioni di salute e di essere informata in modo completo […] riguardo alle conseguenze dell’eventuale rifiuto del trattamento sanitario e dell’accertamento diagnostico o della rinuncia ai medesimi” (art. 1, comma III, l. 219/2017) è, di certo, un atto di libertà, di tutela del diritto alla vita, alla salute, alla dignità e all'autodeterminazione della persona.
La legge sul testamento biologico affonda le proprie radici sulla relazione di cura e di fiducia tra paziente e medico. La stessa fiducia che è fede tra credente e Dio. Lo stesso legame ma con finalità diverse: ecco che il filo già sottile rischia effettivamente di spezzarsi. Assumere il consenso informato da parte del medico esula dalla spes ultima dea e da un amore incondizionato per la vita, soprattutto nella sua spiritualità.
Non è una scelta semplice. Perché accanto ad una sofferenza fisica convive lo stupore di due occhi aprirsi al suono di una voce amata. Come si fa a lasciarsi andare, a lasciarli andare? Eppure uno Stato di diritto, laico, deve farlo: lo Stato, indipendente e senza condizionamenti, non può impedire a chi ha deciso di prendere in mano una parte estrema di quel filo già sottile di scegliere, e scegliere di redigere il proprio testamento sulla vita. Perché libertà è, innanzitutto, libero arbitrio, cui fa da sfondo la propria etica e morale, di competenza personale non statale.
Ricordo i suoi occhi implorare aiuto e sento ancora gli atroci lamenti rimbombare nella testa. Lo guardavo e mi chiedevo cosa avrebbe scelto se avesse saputo di dover vivere otto anni della sua vita in quelle condizioni. Eppure la speranza e il rispetto del dono della vita frenavano qualsiasi tipo di pensiero, perché so che Dio esiste anche nella sofferenza.
Il filo già sottile che lega razionalità e fede rischia di spezzarsi davanti all'impotenza della vita e della morte, nel rispetto di scelte che non sai mai se siano quelle giuste. Consentire ad ogni persona “il diritto di conoscere le proprie condizioni di salute e di essere informata in modo completo […] riguardo alle conseguenze dell’eventuale rifiuto del trattamento sanitario e dell’accertamento diagnostico o della rinuncia ai medesimi” (art. 1, comma III, l. 219/2017) è, di certo, un atto di libertà, di tutela del diritto alla vita, alla salute, alla dignità e all'autodeterminazione della persona.
La legge sul testamento biologico affonda le proprie radici sulla relazione di cura e di fiducia tra paziente e medico. La stessa fiducia che è fede tra credente e Dio. Lo stesso legame ma con finalità diverse: ecco che il filo già sottile rischia effettivamente di spezzarsi. Assumere il consenso informato da parte del medico esula dalla spes ultima dea e da un amore incondizionato per la vita, soprattutto nella sua spiritualità.
Non è una scelta semplice. Perché accanto ad una sofferenza fisica convive lo stupore di due occhi aprirsi al suono di una voce amata. Come si fa a lasciarsi andare, a lasciarli andare? Eppure uno Stato di diritto, laico, deve farlo: lo Stato, indipendente e senza condizionamenti, non può impedire a chi ha deciso di prendere in mano una parte estrema di quel filo già sottile di scegliere, e scegliere di redigere il proprio testamento sulla vita. Perché libertà è, innanzitutto, libero arbitrio, cui fa da sfondo la propria etica e morale, di competenza personale non statale.
Cristina Dettù
sabato 7 aprile 2018
Vorrei svegliarmi Domani
Il cast del film "Basilicata Coast to Coast" (2010). Da sinistra: Max Gazzè, Alessandro Gassmann, Paolo Briguglia, Rocco Papaleo e Giovanna Mezzogiorno. |
Il racconto dell’Italia passa inevitabilmente da alcune storie che fedelmente ci descrivono un presente in cui intravedere il futuro.
Questa storia ci porta a Sud. Oltre Roma, oltre Eboli.
La Basilicata è una regione paesaggisticamente meravigliosa, tra lo Jonio ed il Tirreno, tra grandi pascoli e vette appenniniche. Una regione che racchiude tra Maratea e Metaponto una malinconica bellezza, un territorio che vive tra un passato denso di storia ed un futuro incerto, immerso nella meridionale rassegnazione, ancora abbandonato a quel “niente” che Carlo Levi raccontava tra le pagine del capolavoro Cristo si è fermato ad Eboli.
Matera è capoluogo di provincia ed insieme estremo riassunto della realtà. Questa città, in cui Mel Gibson girò il suo fortunato La Passione di Cristo e Pier Paolo Pasolini ambientò Il Vangelo secondo Matteo, è stata scelta come Capitale della Cultura Europea 2019. Una bella vittoria sul resto d’Italia, visto che la città ha prevalso con 7 voti su 13 su Ravenna, Cagliari, Lecce, Perugia e Siena. Una grande vetrina italiana sul resto d’Europa e del mondo.
Tra i Sassi dovrebbero arrivare richiamati dall'evento circa 5 milioni di turisti che, però, potranno raggiungere la città lucana soltanto in autobus da Salerno o da Bari. Oppure con le littorine a diesel delle ferrovie Apulo-Lucane (di proprietà del Ministero dei Trasporti) che arrancano su un binario inaugurato nel 1915.
In teoria, una linea costruita dalle Ferrovie dello Stato ci sarebbe: la tratta Matera-Ferrandina, iniziata nel 1985, non è stata mai ultimata per la mancata elettrificazione della linea. E così oggi, su quei binari mai utilizzati, pascolano capre e mucche. Nella fatiscente stazione poco fuori Matera, in località “La Martella”, volteggiano tra le biglietterie i fantasmi dell’ennesima occasione italiana mancata. Il tutto per la modica cifra di 500 miliardi di vecchie lire ed una promessa del presidente del Consiglio Zanardelli che va avanti dal 1902.
Nell'Italia del futuro, vorrei che queste “questioni” fossero un lontano ricordo. Che quelle ferrovie mancanti, quei ponti mai costruiti, quei treni mai arrivati siano un brutto sogno in un’epoca da immaginare lontana. Nella mia Italia del domani, abitare in una terra finalmente bellissima, senza rabbia, senza rancori, senza il timore del domani non sarà più utopia. Abbiamo bisogno di una terra piena di prospettiva, dove gli investimenti in cultura e infrastrutture non scompaiano nel clientelismo, nell'oscena gestione politica di chi mi ha preceduto. Ecco cosa vorrei in un Mezzogiorno finalmente amato dai suoi figli non più maledetti.
Rocco Papaleo in Basilicata Coast to Coast canta tra le note jazz di Basilicata on my mind: “La Basilicata è come il concetto di Dio: ci credi o non ci credi”. Io credo nella Basilicata. Sono convinto che Matera possa avere ciò che merita e con lei tutta questa terra spesso dimenticata.
Tornare a credere significa anche ripensare un Mezzogiorno non più come copia malriuscita del Nord che per tempi, storia e infrastrutture viaggia su binari diversi. Bisogna rinquadrare il Sud al centro di una sua autonomia, di una sua personale visione di crescita e sviluppo. Che guardi al Mediterraneo per reggersi sulle sue gambe, nella sua naturale connotazione geografica e culturale. Che catapulti la storica questione da “meridionale” a “nazionale”, perché un Sud che continua ad arrancare nella sua consolidata povertà trascina con sé anche tutto il resto d’Italia. Ovviamente senz'alcuno sconto di pena per i suoi figli che hanno svenduto e per le classi dirigenti che hanno barbaramente amministrato e condotto questa zona d’Europa ad avere le percentuali di crescita tra le più basse, con un tasso di occupazione sotto di 35 punti percentuali rispetto alla media UE. Scrive Franco Cassano nel suo libro Il Pensiero Meridiano (Editori Laterza, 1996) “Pensiero meridiano vuol dire fondamentalmente questo: restituire al Sud l’antica dignità di soggetto di pensiero, interrompere una lunga sequenza in cui esso è stato pensato da altri. Tutto questo non vuol dire indulgenza per il localismo […]. Al contrario un pensiero meridiano ha il compito di pensare il Sud con maggior rigore e durezza, ha il dovere di vendere e combatte iuxsta propria principia la devastante vendita all’incanto che gli stessi meridionali hanno organizzato delle proprie terre”.
Nell'Italia del domani, vorrei che un’altra storia, la mia storia, fosse scritta con parole diverse. La mia storia, come quella di moltissimi altri. Tutti, vittime di una Paese che odia i suoi figli.
Sono nato a Galatina, nel Salento dei “mari del tonno” di Vittore Fiore e delle aride zolle di Luglio. Il mio Salento di Bodini, “così sgradito da doverti amare”. Cresciuto nella lentezza dei riti della Settimana Santa, nel paganesimo delle radici greche, nel dialetto dei vecchi. Mi sono trasferito a Milano dopo il liceo, per studiare e probabilmente lavorare. Un viaggio fatto da migliaia prima di me. Lontano da casa e da una realtà che ci aveva messo al mondo per risputarci altrove. Persi, nell'inesorabilità di un destino scritto da sempre nei discorsi dei miei genitori. “Vane, fiju miu, vane”. Vai, figlio mio, vai. E non guardarti indietro, perché non c’è nulla che tu possa salvare.
Mi vorrei svegliare domani in un’Italia in cui quelli come me non siano costretti a prendere un treno di notte, tra le lacrime e gli addii strazianti, per andare via in cerca di possibilità. Vorrei far colazione domani, in un’Italia senza padri che mangiano il futuro dei figli, senza il loro egoismo infame chiamato debito pubblico e disoccupazione giovanile al 32%. Vorrei leggere il giornale domani, in un’Italia meritocratica, onesta, solidale, libera da raccomandazioni e santi in paradiso. Vorrei baciare mia madre sulla fronte domani, in un’Italia in cui si possa fare impresa per aiutare il territorio.
In cui si possa sognare senza rimanere costantemente delusi.
Vorrei svegliarmi domani mattina e sentirmi un fiero italiano. In un Paese, una Patria, una Nazione, finalmente la più bella del mondo.
Edoardo Mauro
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mercoledì 4 aprile 2018
"i have a dream..."
Martin Luther King Jr. nasce ad Atlanta il 15 Gennaio 1929 |
A scuola, Martin Luther King insieme a Gandhi e ad altri personaggi simbolo della non-violenza ci sono stati presentati, negli anni in cui sedevamo tra quei tristi banchi su cui ora pagherei per tornare, come i paladini del mondo giusto, della pace, del progresso. Bene. Fin qui nulla di strano.
Quello che suona strano è il contesto. Ci hanno presentato, negli stessi anni, gli Stati Uniti come la potenza mondiale capace di coniugare la forza alla libertà, il primato economico e quello militare all’idea di democrazia. Tutto questo stona. L’assassinio di King potrebbe non fare testo, potrebbe avere mille significati diversi dal razzismo, potrebbe essere una storia nella storia non ancora chiarita, ma non è questo il punto. Il punto non è la morte di Martin Luther King. Il punto è la vita.
Durante la sua esistenza, negli Stati Uniti, non in Afghanistan o in Iraq, negli Stati Uniti esistevano fontanelle pubbliche per bianchi distinte da quelle per neri; a teatro i posti per i bianchi erano lontani e diversi da quelli per i neri; negli autobus stesso discorso per le sedute. Negli anni 50 quando la sua attività diventa accesa, i neri ancora non avevano diritto di voto, le discriminazioni erano all’ordine del giorno. La sua strada è segnata da attentati e minacce, le manifestazioni benché all’insegna del pacifismo finiscono con arresti e violenze. King entra definitivamente in contrasto con la Casa Bianca quando, nel 1966, si schiera contro la guerra in Vietnam e denuncia le pietose condizioni in cui versano le metropoli. Cade definitivamente quel velo di ipocrisia e gli Stati Uniti mostrano il loro vero volto. A chi è attento a osservare e a chi, con coraggio e rischiando la vita, è in grado di raccontarlo. Sì, perché la patria della pace e della democrazia non può sopportare i nemici interni, chi critica, chi fa crescere nelle masse un sentimento nuovo di ribellione, di riscossa, di rinascita.
Viene ammazzato, come detto, il 4 aprile del 1968 quando era a Memphis per partecipare ad una marcia di spazzini, bianchi e neri insieme.
A me personalmente la storia di Martin Luther King ricorda quella del centometrista Jesse Owens, un altro personaggio passato agli onori della cronaca come simbolo della lotta al razzismo. Un campione di colore, più veloce di tutti, che fa sognare il pubblico, gli spettatori. Un fulmine. Bene. Tutto meraviglioso se non fosse che qualche anno fa esce “Race”, un film che ha messo in risalto, grazie alla testimonianza della figlia del corridore, l’accoglienza ricevuta dal padre una volta tornato in America dopo aver incantato il mondo alle olimpiadi di Berlino del 36 conquistando quattro medaglie in sette giorni. «In retrospettiva, mio padre fu profondamente ferito dal fatto che Franklin Delano Roosevelt, il presidente americano dell’epoca, non l’avesse ricevuto alla Casa Bianca». La storia dice che Roosevelt, per impegni elettorali, forse preoccupato dalla reazione degli Stati del Sud, cancellò l’appuntamento con l’atleta e non lo recuperò mai. La cosa assurda in tutta questa storia appare che a scoprire questo bluff non sia stato un complottista o un repubblicano nemico di Roosevelt, ma Owens stesso che nella sua biografia, per filo e per segno, ma inascoltato, ha messo nero su bianco tutta la sua vicenda.
Marco De Matteis
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