Continua il dibattito sul testamento bioligico sul nostro blog. Ad intervenire è Gabriele Giaccari, militante "fuorisede" di Andare Oltre Galatina.
“Quando si è giovani è strano poter pensare che la nostra sorte venga e ci prenda per mano, venga e ci prenda per mano...”.
“Quando si è giovani è strano poter pensare che la nostra sorte venga e ci prenda per mano, venga e ci prenda per mano...”.
Ho deciso di menzionare questi versi di Guccini perché, probabilmente, rappresentano al meglio la difficoltà che ho incontrato nel dover affrontare un argomento così sofferto come il c.d. testamento biologico.
Dall’analisi del dato normativo, emerge che i principi giuridici posti alla base della legge 219/2017 sono i seguenti:
(1) ad ogni persona capace di agire deve essere riconosciuto il diritto di rifiutare, o revocare in qualunque momento in caso di iniziale consenso, “qualsiasi accertamento diagnostico o trattamento sanitario indicato dal medico per la sua patologia o singoli atti del trattamento stesso”;
(2) ogni persona maggiorenne e capace di intendere e di volere, “in previsione di un’eventuale futura incapacità di autodeterminarsi e dopo avere acquisito adeguate informazioni mediche sulle conseguenze delle sue scelte, può, attraverso le DAT, esprimere le proprie volontà in materia di trattamenti sanitari, nonché il consenso o il rifiuto rispetto ad accertamenti diagnostici o scelte terapeutiche e a singoli trattamenti sanitari”.
A volersi soffermare esclusivamente su una analisi meramente giuridico - “politica”, ritengo opportuno che in Italia, stato laico e di diritto, ognuno di noi possa avere la possibilità di decidere, in salute o in costanza di malattia, se provare fino all’ultimo a difendere la propria vita oppure se, dignitosamente, evitare inutili sofferenze.
Non era più tollerabile che un paese civile come l’Italia, desiderosa di affrontare le sfide del futuro da protagonista, offrisse ai propri cittadini che volevano porre fine alle proprie sofferenze causate da una vita segnata da malattie incurabili o fortemente invalidanti, quale sola ed unica scelta quella di emigrare verso altri Paesi al fine di ricorrere a qualche dispensatore di “buona morte”.
Fortunatamente, il nostro legislatore ha capito che riconoscere un diritto significa aprire nuove possibilità, significa compiere un piccolo passo verso il progresso, consentendo una libertà di scelta che prima era vietata.
Ad ogni modo, seppur condividendo i principi ispiratori di questa legge, non nascondo che ho grande difficoltà ad affrontare l’argomento.
L’intreccio di valori etici, religiosi, culturali è così inestricabile che non mi sento all’altezza di andare oltre ad una mera analisi giuridica.
Invidio coloro che sono convinti che “i tubi vadano staccati” come invidio chi difende il bene vita fino all’ultimo naturale anelito.
Non sono in grado di poter esprimere un giudizio in merito di scelte così delicate perché immagino quanto possa essere dolorosa e consumante la scelta tra il voler smettere di soffrire o il voler provare fino all’ultimo a combattere per la vita, tra il continuare una esistenza provata da atroci sofferenze fisiche e morali oppure il porre fine a tutto, cercando così un seppur minimo sollievo.
Deve essere un dissidio angosciante perché, anche se è vero che vivere in uno stato vegetativo o in una continua escalation di sofferenze rappresenta l’incubo di tutti, non deve essere comunque facile decidere di morire.
Infatti, per quanto si possa credere ad una esistenza dopo la morte, l’unica cosa certa è che questa è l’unica chance effettiva di vita che ci viene garantita, bella o brutta che sia.
Ed una volta finita, non c’è modo di ricominciare.
Per questo, da cittadino sono contento che sia stato riconosciuto a tutti noi il diritto a scegliere, ove possibile, della nostra vita e/o della nostra morte. Ma da ragazzo ancora non credo di avere ancora la forza di poter decidere in merito.
In fondo quando si è giovani è strano poter pensare che la nostra sorte venga e ci prenda per mano, venga e ci prenda per mano...
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