Ricordo i suoi occhi implorare aiuto e sento ancora gli atroci lamenti rimbombare nella testa. Lo guardavo e mi chiedevo cosa avrebbe scelto se avesse saputo di dover vivere otto anni della sua vita in quelle condizioni. Eppure la speranza e il rispetto del dono della vita frenavano qualsiasi tipo di pensiero, perché so che Dio esiste anche nella sofferenza.
Il filo già sottile che lega razionalità e fede rischia di spezzarsi davanti all'impotenza della vita e della morte, nel rispetto di scelte che non sai mai se siano quelle giuste. Consentire ad ogni persona “il diritto di conoscere le proprie condizioni di salute e di essere informata in modo completo […] riguardo alle conseguenze dell’eventuale rifiuto del trattamento sanitario e dell’accertamento diagnostico o della rinuncia ai medesimi” (art. 1, comma III, l. 219/2017) è, di certo, un atto di libertà, di tutela del diritto alla vita, alla salute, alla dignità e all'autodeterminazione della persona.
La legge sul testamento biologico affonda le proprie radici sulla relazione di cura e di fiducia tra paziente e medico. La stessa fiducia che è fede tra credente e Dio. Lo stesso legame ma con finalità diverse: ecco che il filo già sottile rischia effettivamente di spezzarsi. Assumere il consenso informato da parte del medico esula dalla spes ultima dea e da un amore incondizionato per la vita, soprattutto nella sua spiritualità.
Non è una scelta semplice. Perché accanto ad una sofferenza fisica convive lo stupore di due occhi aprirsi al suono di una voce amata. Come si fa a lasciarsi andare, a lasciarli andare? Eppure uno Stato di diritto, laico, deve farlo: lo Stato, indipendente e senza condizionamenti, non può impedire a chi ha deciso di prendere in mano una parte estrema di quel filo già sottile di scegliere, e scegliere di redigere il proprio testamento sulla vita. Perché libertà è, innanzitutto, libero arbitrio, cui fa da sfondo la propria etica e morale, di competenza personale non statale.
Cristina Dettù
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