mercoledì 4 aprile 2018

"i have a dream..."

Martin Luther King Jr. nasce ad Atlanta il 15
Gennaio 1929
Il 4 aprile del 1968 il leader delle battaglie di civiltà e di integrazione, Martin Luther King, veniva assassinato negli Stati Uniti, a Memphis, con un colpo di fucile.
A scuola, Martin Luther King insieme a Gandhi e ad altri personaggi simbolo della non-violenza ci sono stati presentati, negli anni in cui sedevamo tra quei tristi banchi su cui ora pagherei per tornare, come i paladini del mondo giusto, della pace, del progresso. Bene. Fin qui nulla di strano.
Quello che suona strano è il contesto. Ci hanno presentato, negli stessi anni, gli Stati Uniti come la potenza mondiale capace di coniugare la forza alla libertà, il primato economico e quello militare all’idea di democrazia. Tutto questo stona. L’assassinio di King potrebbe non fare testo, potrebbe avere mille significati diversi dal razzismo, potrebbe essere una storia nella storia non ancora chiarita, ma non è questo il punto. Il punto non è la morte di Martin Luther King. Il punto è la vita.
Durante la sua esistenza, negli Stati Uniti, non in Afghanistan o in Iraq, negli Stati Uniti esistevano fontanelle pubbliche per bianchi distinte da quelle per neri; a teatro i posti per i bianchi erano lontani e diversi da quelli per i neri; negli autobus stesso discorso per le sedute. Negli anni 50 quando la sua attività diventa accesa, i neri ancora non avevano diritto di voto, le discriminazioni erano all’ordine del giorno. La sua strada è segnata da attentati e minacce, le manifestazioni benché all’insegna del pacifismo finiscono con arresti e violenze. King entra definitivamente in contrasto con la Casa Bianca quando, nel 1966, si schiera contro la guerra in Vietnam e denuncia le pietose condizioni in cui versano le metropoli. Cade definitivamente quel velo di ipocrisia e gli Stati Uniti mostrano il loro vero volto. A chi è attento a osservare e a chi, con coraggio e rischiando la vita, è in grado di raccontarlo. Sì, perché la patria della pace e della democrazia non può sopportare i nemici interni, chi critica, chi fa crescere nelle masse un sentimento nuovo di ribellione, di riscossa, di rinascita.
Viene ammazzato, come detto, il 4 aprile del 1968 quando era a Memphis per partecipare ad una marcia di spazzini, bianchi e neri insieme.
A me personalmente la storia di Martin Luther King ricorda quella del centometrista Jesse Owens, un altro personaggio passato agli onori della cronaca come simbolo della lotta al razzismo. Un campione di colore, più veloce di tutti, che fa sognare il pubblico, gli spettatori. Un fulmine. Bene. Tutto meraviglioso se non fosse che qualche anno fa esce “Race”, un film che ha messo in risalto, grazie alla testimonianza della figlia del corridore, l’accoglienza ricevuta dal padre una volta tornato in America dopo aver incantato il mondo alle olimpiadi di Berlino del 36 conquistando quattro medaglie in sette giorni. «In retrospettiva, mio padre fu profondamente ferito dal fatto che Franklin Delano Roosevelt, il presidente americano dell’epoca, non l’avesse ricevuto alla Casa Bianca». La storia dice che Roosevelt, per impegni elettorali, forse preoccupato dalla reazione degli Stati del Sud, cancellò l’appuntamento con l’atleta e non lo recuperò mai. La cosa assurda in tutta questa storia appare che a scoprire questo bluff non sia stato un complottista o un repubblicano nemico di Roosevelt, ma Owens stesso che nella sua biografia, per filo e per segno, ma inascoltato, ha messo nero su bianco tutta la sua vicenda.
Marco De Matteis

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