Il Sedile di Lecce illuminato per il Giorno del Ricordo |
“lu boia diventa vittima puru dopu menzura
ma la vittima diventa boia se nu tene cultura”
Ho lasciato che il 10 febbraio passasse senza partecipare ad alcuna iniziativa per il giorno del ricordo per le vittime delle foibe e dell’esodo giuliano-dalmata, così come in silenzio sono restato il giorno prima, il 9 febbraio, ricorrenza della morte dell’ultimo ragazzo del fronte della gioventù ucciso dalla violenza politica (1) nel 1983, Paolo Di Nella, al quale era intitolato il circolo di Galatina di Azione Giovani. E la scelta di “ignorare” i due momenti avviene proprio quest’anno che da amministratore avrei potuto dare maggiore visibilità e coinvolgimento.
E tuttavia nei giorni precedenti la ricorrenza del 10 febbraio, mentre tutti gli altri gruppi di Andare Oltre nella provincia si preparavano ad organizzare iniziative adeguate, e a cavallo del 27 gennaio (giornata della memoria), c’è stata una riflessione sullo svolgimento di queste manifestazioni e sulla loro natura parziale, nel senso di essere portatrici insieme alla commemorazione delle vittime in questione, inevitabilmente, una lettura di parte. Intendiamoci, non sono contrario a queste iniziative. Più se ne parla e meglio è. E nel corso degli anni di impegno politico ho più volte organizzato eventi, incontri, dibattiti, sondaggi e pubblicazioni sulla questione nel tentativo di restituire alla memoria collettiva alcune pagine di storia strappate per convenienza e per non aderenza al racconto “ufficiale” come appunto quella sulle foibe o come quella sulle vittime meridionali del processo di unificazione nazionale (vittime recentemente riconosciute da una legge regionale).
Ma, bisogna ammetterlo, non siamo riusciti ad andare oltre. Non siamo riusciti a trasformare una lettura di parte in una storia condivisa che prenda le distanze non da questo o da quell’episodio singolo (e chi non prenderebbe le distanze quando farlo coincide anche con l’addossare ad un “nemico” politico alcune gravi e indubbie responsabilità?) ma da un metodo, quello della violenza come strumento di lotta politica. Ecco, un articolo della nostra costituzione recita (vado più o meno a memoria) “l’Italia ripudia la guerra come strumento di risoluzione delle controversie internazionali”. Ora, tralasciando quando ci si attenga a questo articolo, per analogia dovremmo prendere le distanze dalla violenza come strumento di lotta politica. E per farlo, il passaggio necessario che si dovrebbe compiere è che ognuno riconosca i propri errori, non celebri le proprie vittime addossando colpe agli altri.
Un rinchiudersi e celebrare i “propri morti” come compensazione per le celebrazioni dei “morti altrui” compiuta dagli avversari politici non ha senso. Certo che i morti vanno ricordati. Ma se li si ricorda per poi perpetrare gli stessi metodi su altri popoli (come ad esempio accade in Palestina dove “la vittima diventa boia”) non ha senso. Ricordarne solo alcuni ed ergere il loro ricordo a monito per l’umanità mentre di altri si è volontariamente fatta perdere traccia è di per sé stessa una discriminazione: è ammettere che ci sono popoli, individui, gruppi politici sui quali è ammessa la violenza e altri su cui non è ammessa. E’, in altre parole, la logica perversa dell’uccidere un fascista non è reato. A condannare l’esecutore materiale di un omicidio o di una violenza specifica ci deve pensare la magistratura (quando lo fa, ma questo è un altro discorso). Sta invece alla politica costruire altri metodi di lotta e di confronto e di dialogo tra le parti ed espellere, ognuno dal proprio campo, atteggiamenti violenti e discriminatori.
Ora, cosa centri questo non la ricorrenza delle foibe? Non lo so. E’ stato uno spunto per mettere in fila un ragionamento che nei giorni scorsi ho fatto con alcuni amici di tutt’altro orientamento politico con i quali mi trovo a collaborare e a dialogare per la crescita della cultura legalitaria a Galatina e che hanno dimostrato a differenza di molti altri della loro parte di essere portati all’ascolto e al confronto. E allora è da qui che bisogna partire, non dalle letture di parte. Ogni uomo ucciso per affermare delle idee politiche è un genocidio. Se riconosciamo questo, se riconosciamo che tutti i morti politici hanno la stessa dignità, allora potremo andare oltre il qui e ora e costruire quel metodo politico che permetterà, magari un giorno, di celebrare insieme ad esempio, a parti invertite, partigiani e repubblicani di Salò in un ipotetico 25 aprile prossimo venturo. Altrimenti, ad ogni celebrazione di parte sentiremo crescere l’odio nei confronti di un ipotetico nemico. Nemico che spesso esiste solo nella nostra testa o che ci serve per continuare a perpetuare divisioni di parte che ci permettano di sentirci moralmente superiori.
(1) Paolo Di Nella era un ragazzo del Fronte della Gioventù di Roma che venne aggredito alle spalle da esponenti di centri sociali mentre affiggeva manifesti per l’istituzione di un’area verde in una zona abbandonata e degradata del suo quartiere e che morì in seguito alle ferite riportate dopo diversi giorni di coma durante i quali ricevette, tra le altre, anche la visita dell'allora presidente della repubblica Sandro Pertini. Uso volontariamente l’espressione “violenza politica” e non quello di “violenza comunista” non perché non si conoscano i colpevoli (anche se mai condannati) ma perché ciò che conta è che si prenda le distanze da quel clima di violenza e da quel metodo di lotta politica, da qualunque parta provenga, anche dalla propria.
Ps. Finisco di scrivere il post, lo rileggo, lo correggo. Apro fb e leggo del coro “ma che belle son le foibe da Trieste in giù” che avrebbero intonato alcuni idioti nel corso del corteo anti-fascista di Macerata. Ecco un esempio di una manifestazione di parte che porta a individuare un nemico che non esiste, ad addossare colpe, ad inneggiare a crimini contro innocenti purché vagamente accusati di essere simpatizzanti per quel nemico. Forse, piuttosto che usarli così i morti, faremmo meglio a dimenticarli tutti. Indistintamente.
Pierantonio De Matteis
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